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Giuliana Nuvoli, “La maternità è un fatto privato, una malattia? Riflessioni sulla statua della “donna che allatta”, in “Arcipelago Milano”, 9 aprile 2024
https://www.arcipelagomilano.org/archives/63045
Giuliana Nuvoli, recensione a Emanuela Fontana, “La correttrice”, Milano, Mondadori, 2023, in www.vitaminevaganti.com, n.423
Emanuela Fontana, La correttrice. L’editor segreta di Alessandro Manzoni, Milano,
Mondadori, 2023,
Lei, Emilia, ha ventiquattro anni quando conosce Alessandro, scrittore famoso, venerato e
più vecchio di circa tre decenni: proprio dal loro incontro nasce la redazione finale dei
Promessi Sposi. L’incontro avviene nel 1838: già da undici anni “don Lisander” voleva
correggere la prima edizione del 1827 e, insieme, pubblicare un’edizione del romanzo che
non potesse essere contraffatta. Ne erano già uscite quaranta abusive: così Manzoni, spinto
dalla seconda moglie Teresa Stampa, decide di farlo illustrare con oltre 400 vignette da Gonin,
e firma un contratto con l’editore Redaelli per una uscita a cadenza fissa. E’ una piccola
frenetica industria di cui fa parte anche Emilia, il cui ruolo si rivela ben più importante di
quanto si sia finora creduto.
La correttrice racconta questa storia nella forma del romanzo: ma il libro è molto di più.
E’ la stessa stessa autrice a raccontarne la nascita e la formazione – fra le tante presentazioni
– l’8 ottobre in una sala della Biblioteca Braidense, a Milano. Emanuela Fontana incontra per
la prima volta il nome di Emilia in un saggio del linguista Claudio Marazzini: ne è incuriosita
e inizia così un’indagine che durerà mesi tra la Braidense di Milano e l’Archivio di Stato di
Firenze. La ricerca è inizialmente faticosa, in primo luogo a causa dell’errore della sua data
di nascita: non il 1815, ma il 1814. Indagando con pazienza, a poco a poco la storia di Emilia
prende forma: è figlia di un cancelliere del tribunale di Commercio, nipote di un impresario
teatrale; la famiglia non è ricca, ma circola cultura. Per aiutare la famiglia, Emilia svolge il
lavoro di aiuto bibliotecaria presso la famiglia Viesseux e, proprio nel Gabinetto, dove va
ogni giorno, conosce Massimo d’Azeglio, che la vuole con sé come istitutrice della figlia
Rina, avuta da Giulietta, la primogenita di Manzoni. Lasciare Firenze e il promesso sposo
Fulvio non è facile: ma Emilia decide di seguire d’Azeglio a Milano, dove il suo fiorentino
attira l’attenzione di Manzoni, che seguirà, l’estate successiva nella villa di Brusuglio.
L’incontro con la figura di questa giovane donna suscita da subito nella Fontana “sorpresa
ed emozione”: il romanzo nasce da questi due elementi, cui si unisce la volontà di rendere
giustizia a una figura femminile quasi del tutto ignorata dalla critica. In realtà a lei fu dedicato
da Emilio Sioli Legnani, nel 1936, il saggio Madamigella Emilia Luti, collaboratrice del
Manzoni: poi cadde di nuovo il silenzio. Adesso è tornata alla luce e a far sentire la sua voce
in un’opera che, in ogni pagina, risponde fedelmente alla categoria del verosimile, che deve
connotare – proprio secondo Manzoni – il romanzo storico. E La correttrice è un romanzo
storico in cui ogni nome, ogni data, ogni elemento è frutto di ricerche accurate: va da sé che
anche l’immaginazione ha la sua parte, perché i legami fra le singole parti sono come “buchi
vuoti” da riempire. Ma anche l’invenzione deve essere fondata: così, dietro la scrittura c’è il
vaglio quasi maniacale della corrispondenza fra Emilia e Alessandro. Sono, in gran parte,
bigliettini in cui Manzoni chiedeva il corrispettivo toscano di una frase milanese: e
l’autorevolezza di lei che possedeva appieno il fiorentino, lo spingeva di norma a inserirlo nel
romanzo. E’ proprio lo studio di questi bigliettini che svela, poco a poco, un Manzoni inedito:
spesso ironico, talvolta giocoso.
E’ una figura forte, quella di Emilia, dotata di un carattere fermo e talora intemperante, tanto
da non esitare a rispondere per le rime allo stesso scrittore, pur nutrendo per lui una scoperta
venerazione. E accanto a lei prendono vita altre figure femminili: la decisa donna Giulia
Beccaria; Giovanna Feroci, la madre di Emilia che la seguì a Milano e in grado di aiutare la
figlia a trovare le forme più adatte da suggerire a don Alessandro; e, ancora, Teresa Stampa,
che gestisce con sapienza le pubblicazioni di Alessandro, e Luisa, la seconda moglie di
d’Azeglio che rimpiazza Giulietta con affettuosa perentorietà.
Accanto a loro la figura di Manzoni si umanizza in un pacato crescendo: è affetto da una
leggera balbuzie; soffre di sfinenti crisi epilettiche; è sovente angosciato e indeciso; ha
l’ossessione di dar vita a una lingua italiana, comprensibile a tutti. E, in questo sforzo, è
sovente solo: in molti non condividono la sua scelta di fare del fiorentino la lingua nazionale.
Emilia fu il suo fedele supporto; Emilia lo rassicurava con la sua conoscenza della lingua e la
sua forza giovanile.
A partire dal 17 maggio 1841 Emilia passò da casa d’Azeglio a casa Manzoni dove rimase
per circa un anno: la casa di via Morone fu, in quel periodo, una vera e propria fucina. Gonin
disegnava su indicazioni dello scrittore; gli incisori e gli stampatori si alternavano con ritmo
febbrile; Emilia era sempre a disposizione per le correzioni linguistiche; Massimo d’Azeglio,
onnipresente, sovrintendeva il tutto.
Emanuela Fontana ricostruisce con vivezza il brulicare dei personaggi intorno all’edizione
“risciaquata in Arno”. La sua è una prosa scorrevole, attenta alla descrizione degli ambienti e
precisa nella definizione dei caratteri. La verosimiglianza del suo romanzo storico va anche a
toccare la lingua dei personaggi, in una sorta di lieve plurilinguismo avvertibile, in particolare,
nei dialoghi: Emilia non rinuncia alla patina del fiorentino e don Lisander mantiene inflessioni
del dialetto milanese. E c’è un altro elemento, di grande interesse, che la stessa Fontana ha
messo in evidenza: la lingua fiorentina è una lingua “visiva”; la sua immissione nel romanzo
rende anche i Promessi sposi potentemente visivi. Lo si avverte proprio nelle parti in cui il
testo è falcidiato dalle correzioni: gli episodi della Monaca di Monza, dell’Innominato e gli
ultimi capitoli del romanzo.
La lettura de La correttrice è così una riscoperta di Manzoni e della sua opera. Della Storia
della colonna infame, ad esempio, che Manzoni i decide a pubblicare solo dopo la revisione
di Emilia. In una lettera al figlio Stefano, Teresa Stampa scrive: “Aspettiamo a farla uscire
che la signora Emilia torni…”. Ed è brava la Fontana a illuminare anche aspetti del rapporto
fra Manzoni e i suoi lettori: la vicinanza di Emilia spinge lo scrittore a prestare più attenzione
ai suoi “venticinque lettori”, a mettersi anche “nei loro panni”.
Ma nel romanzo c’è molto di più: c’è la presenza di un rapporto che fu anche di amicizia,
con lunghe conversazioni che andavano ben oltre i Promessi sposi; un rapporto che si nutrì
anche del rispetto e della riconoscenza di Manzoni nei confronti di una donna forte,
intelligente, ironica a par suo. Nella dedica apposta sull’edizione definitiva dei Promessi sposi
si legge: “Madamigella Luti, gradisca questi cenci da Lei risciacquati in Arno, che le offre,
con affettuosa riconoscenza, l’autore… don Alessandro”.
Giuliana Nuvoli
Emanuela Fontana è nata a Milano ma vive da molti anni a Roma. È insegnante, giornalista e
guida escursionistica, ed è stata finalista alla XXI edizione del premio Calvino. Il suo esordio
è Il respiro degli angeli. Vita fragile e libera di Antonio Vivaldi (Mondadori 2021), il primo
romanzo che ricostruisce la vita del geniale compositore delle Quattro stagioni.
Giuliana Nuvoli, “Anna Carena. L’anima popolare di Milano”, in www.vitaminevaganti.com, n. 237
ANNA CARENA. L’ANIMA POPOLARE DI MILANO
Milano ha dato i natali ad attrici straordinarie: Franca Valeri, Valentina Cortese, Adriana Asti, Lucia Bosé, Mariangela Melato, Lella Costa… ma nessuna di loro ha incarnato l’anima popolare di Milano, quella più vera e antica, come Anna Carena.
Anna Carena, nome d’arte di Giuseppina Galimberti, nasce a Milano il 30 gennaio 1899 e, ancora adolescente, nel 1914, debutta in teatro nella Compagnia di Annibale Betrone. La scuola è di alto livello: Betrone aveva lavorato con Ermete Novelli sino al 1908, poi con Virgilio Talli, dal 1909 al 1921, e aveva dato vita a una formidabile triade di attori con Maria Melato e Alberto Giovannini. Anna è in seconda linea: ma è giovane e impara.
Lasciato Betrone, Anna entra nella compagnia Palmarini-Campa, dove recitano attori di notevole calibro come Antonio Gandusio, Giuseppe Porelli, Franca Dominici, Sarah Ferrati e Stefano Sibaldi. Alla fine degli anni Venti è prima attrice con Leo Garavaglia e Franco Schirato che, a Milano, torna in palcoscenico con Gualtiero Tumiati; siamo alle radici nobili dell’attuale teatro milanese: Tumiati, dal 1940, dirige l’Accademia dei filodrammatici di Milano e ha come allievi Giorgio Strehler e Paolo Grassi.
Lombi nobili, dunque, per Anna che è prima attrice nel teatro dialettale milanese Il Principe. Quando, nel 1932, Schirato va a Roma per occuparsi di doppiaggio, Anna fonda una propria compagnia, sempre di prosa lombarda, e rappresenta, fra gli altri (1935), One famiglia de cilapponi, testo inedito di Carlo Dossi e Luigi Perelli. La commedia è uno dei pochi lavori per teatro scritti direttamente da Dossi in dialetto milanese, in contrapposizione all’ampollosa prosa “manzoniana” di moda in quegli anni. La trama ruota intorno alle vicende della famiglia Matriggiani, definita una famiglia di cilapponi (persone fatue, sprovvedute e superficiali). Legati ai loro quarti di nobiltà e a quello che per loro rappresenta l’aristocrazia, ma ormai ridotti sul lastrico, sono convinti che a un nobile non si debba chiedere né di lavorare né di studiare. Dossi è magistrale nel disegnare la protagonista femminile, donna Barbara (che ad esempio dice imitando il francese «…on collier d’emorroid sul seno» al posto di usare il francesismo émerauds, smeraldi). Questo personaggio, che perfettamente si adatta alle qualità istrioniche di Anna, rappresenta forse il modello più compiuto della borghese spiantata e piena di boria di Miracolo a Milano.
Versatile e curiosa, Anna si cimenta lo stesso anno nella prosa radiofonica dell’EIAR, con Benedetta fra gli uomini, di Gian Capo e, poco dopo, si occupa di teatro delle marionette al Caffè Campari. Ma non basta. È anche autrice di testi teatrali: Tre colpi di rivoltella, Le sorelle, Isaia da Milano riduzione dialettale di un dramma di Andrea Vallardi. Non sono anni facili: il regime fascista impone la fine del teatro dialettale. Il dialetto viene tollerato solo quando serve per propagandare i “valori” e i modelli del regime: e Anna non è tra questi. Così si allontana dalle scene: vi tornerà nel dopoguerra accanto ad Annibale Ninchi.
Ma lei è un’attrice, e il richiamo del cinema è forte. L’esordio avviene in Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati, dove ha la parte di Carlotta, la cameriera della marchesa: è il primo di una lunga serie di ruoli da caratterista in ventitre film fra il 1941 e il 1955. È la maestra sulla corriera in Quattro passi fra le nuvole (Blasetti, 1942), la piccolo borghese Argìa ne Il mulino del Po (Lattuada, 1948), Marta, la donna altezzosa in Miracolo a Milano (Vittorio De Sica, 1951), l’affittacamere ne Il cappotto (Lattuada, 1952), la contessa Gerza in Cafè Chantant (Mastrocinque, 1954), la portinaia ne L’ultimo amante (Mattoli, 1955).
Per alcuni anni sembra abbandonare il cinema per la RAI: è Pierina in Una mattina di sole (Gagliardelli, 1957), poi recita ne La borsetta (Molinari, 1957) e ne L’altro uomo di Franco Enna (1959).
Torna al cinema pochi anni dopo, con grandi registri: Elio Petri (Il maestro di Vigevano, 1963); Vittorio De Sica (I girasoli, 1970); Dino Risi (La moglie del prete, 1970); Alberto Lattuada (Bianco, rosso e…, 1972). In questi anni non la ignora neppure la televisione: da ricordare le miniserie L’idiota, le due versioni di Piccolo mondo antico, Camilla.
A Milano ci sono molte cose da fare, e di varia natura. Così diversifica la sua conoscenza del teatro partecipando ad allestimenti di Luchino Visconti (La monaca di Monza di Testori) e di Giorgio Strehler (L’anima buona di Sezuan di Brecht). Nata quando il XIX secolo si stava congedando, Anna Carena attraversa con solida forza quasi tutto il Novecento: si spenge il 15 aprile 1988 nella città che non si dimentica di lei.
Un rettangolo verde, in Via Camillo Golgi, 36 – all’angolo con via Bernardo Ugo Secondo – da martedì 20 giugno 2023 ha un nome: Anna Carena. Attrice 1899-1988, inciso in una piccola lastra di marmo, da quel giorno compagna di un ulivo bicentenario, che non voleva più essere solo. Il vero protagonista dell’inaugurazione, più delle istituzioni, fu quel lembo risicato di verde dove Marta, la signora altezzosa, ebbe la sua “casa”: perché proprio qui venne allestita la baraccopoli di Miracolo a Milano. È un giardino “dell’amicizia e della pace”, la cifra che ha sempre segnato la vita di Anna, come emerge con chiarezza dalla sua recensione al film, pubblicata sull’“L’Illustrazione Ticinese” il 17 febbraio 1951, pochi giorni dopo l’uscita di Miracolo a Milano nelle sale.
È un pezzo ispirato alla speranza, dove una giustizia superiore, quella divina, premierà i reietti e gli emarginati… Saranno i poveri a salire sempre più in altro, anche a cavallo di povere scope, lasciando a terra le avidità, gli egoismi, i conflitti, le miserie dei cuori insensibili. La prosa di Anna è rapida, veloce, efficace:
«Un villaggio di gente povera, buona, indifesa. Ci basta una capanna per vivere e dormire, ci basta un po’ di terra per vivere e morire». È la canzone che accompagna, con il suo ritmo fra lieto e rassegnato il film, «quegli uomini avranno sempre intorno a essi, sopra di essi la giustizia suprema che li porterà, premiandoli, lassù dove la signora Lolotta è già arrivata, da dove li segue e li aiuta. E vani saranno gli sforzi degli egoismi terreni tesi a soffocare i sogni e le aspirazioni dei più umili perché le strade rimangano libere soltanto per il passaggio dell’arrivismo sfruttatore». Ovunque, per tutto il film è poesia, è canto: ovunque è il segno di una nobiltà artistica non facilmente raggiungibile, di un palpito d’ala che tende alle vette più alte, che freme e fa fremere, di una invocazione alla più comprensiva solidarietà umana in questo tragico timore di nuove guerre. L’ulivo bicentenario, quel 20 giugno, sorrideva felice all’allontanarsi delle uniformi, delle fasce tricolori, delle cineprese; e la piccola lastra di marmo col nome di Anna gli rispondeva con un altro tenero sorriso. Si ricordavano entrambi del volo delle scope verso il cielo, e la facilità – per i puri di cuore – di sognare. Era il posto giusto per Anna Carena, la sua vera “casa”: nel cuore di Milano, piccolo, quasi nascosto, con un continuo via vai di studenti, di giovani, di speranze.
Giuliana Nuvoli, ” ‘La civile uguaglianza degli esseri umani’. Anna Kuliscioff”, in “Vite controvento. Storie di donne”, Trieste, Vita Activa, 2023, pp. 131-142.
GIULIANA NUVOLI
“La civile eguaglianza degli esseri umani”. Anna Kuliscioff
Anna si tolse quieta gli occhiali e guardò fuori: il sole cedeva ai primi incerti passi della notte; il Duomo scrutava impettito la piazza e i passi veloci dei ritardatari; i vetturini, intanto, aprivano le coperte e le appoggiavano alla meglio sulle ginocchia: la notte sarebbe stata lunga e il freddo impietoso.
Anna si appoggiò allo schienale del divanetto verde e chiuse gli occhi. Sapeva di non avere ancora molto tempo: la tosse era sempre più intensa e lei sempre più debole. Filippo stava per arrivare… il suo Filippin! Aveva la stazza di un orso e la delicatezza di una fanciulla.
L’aveva conosciuto a Napoli, così diverso da Andrea Costa: con lui, da subito, si era sentita al sicuro. Costa era stato l’accecamento dei sensi e l’esaltazione della politica: la Svizzera, Parigi, Milano, Imola e la nascita di Andreina. Avrebbe potuto essere una grande storia: ma lui era un inguaribile misogino, e lei aveva bisogno di respirare… Turati era diverso: educazione da signore, voce pacata e mani forti, quelle che danno calore e promettono carezze.
Erano passati anni prima di convivere: la laurea, la specializzazione in ginecologia, una tesi sulla febbre puerperale che, da subito, aveva iniziato a salvare vite. Napoli, Torino, Padova… il passaggio doloroso a Pavia, poi la delusione milanese: alla Ca’ Granda non l’avevano voluta perché era donna. Stupidi tacchini!
Ma lei non si era scoraggiata: era a Milano, con Filippo, Andreina, la politica e tante cose da fare! Avrebbe curato i poveri: a loro, e alle donne, i luminari della Ca’ Granda non avevano il tempo di pensare… C’erano le sartine, le tabaccaie, le operaie delle filande; e poi quelle bambine vendute e violate, coi gracili corpi a cui la sifilide toglieva ogni speranza… La città era crudele: ma lo è la vita, lo sono gli uomini, lo è il destino. Per fortuna non sempre. C’erano stati momenti in cui la vita sembrava esplodere verso l’alto e ricadere in frammenti colorati. Uno di questi era stato il 27 aprile 1890: il Circolo Filologico Milanese l’aveva invitata a tenere una conferenza sul problema del proletariato femminile, indicando la soluzione socialista.
La sala è gremita: volti curiosi, baffi solenni, dame con serici abiti primaverili. Anna mette subito in rilievo il fatto che l’inferiorità della donna nasce ed è codificata da privilegi maschili consacrati nel tempo. Il piglio della conferenza è vivace, il tono appassionato, la materia densa. Sono presenti tutti i grandi temi per cui lei si è battuta, e quelli che saranno oggetto delle future battaglie. Ricorda bene, ancora adesso, l’affondo frontale e deciso:
Tutti gli uomini, salvo poche eccezioni, e di qualunque classe sociale, per una infinità di ragioni poco lusinghiere per un sesso che passa per forte, considerano come un fenomeno naturale il loro privilegio di sesso e lo difendono con una tenacia meravigliosa, chiamando in aiuto Dio, Chiesa, scienza, etica e le leggi vigenti, che non sono altro che la sanzione legale della prepotenza di una classe e di un sesso dominante. […] In questa lotta lunga, continua e faticosa, col progredire e coll’evolvere della società è germogliato un sentimento, che si fa sempre più coscienza – il sentimento della giustizia sociale – della civile eguaglianza degli esseri umani.
Anna colpisce di fioretto, non di spada; a volte, con velato ma irridente sarcasmo, sembra fare un passo indietro: ma è un piccolo vezzo, perché subito dopo, con un sorriso sottolinea come abdicare al potere sia sempre cosa difficile, anzi, dolorosa. E come, in questa resistenza, il maschio trovi un potente alleato nella religione: il sesso di Dio non è femminile!
La conferenza è un trionfo e l’inizio di un periodo travolgente. Nel 1891 la fondazione di “Critica sociale”; nel 1892 la nascita del Partito dei Lavoratori Italiani che, nel 1895, diventa il Partito Socialista Italiano. E poi le lotte per un lavoro più giusto, sino alla legge Carcano del 1902. Non era quella che lei avrebbe voluto: ma i fanciulli non potevano essere ammessi al lavoro sotto i dodici anni; e le donne non avrebbero lavorato più di dodici ore, e avrebbero avuto quattro settimane di congedo dopo il parto, con la possibilità di allattare. Un passo avanti in un mondo misogino di cui andava orgogliosa.
…
La luce incerta dei lampioni entrava dalle tende e riempiva di taglio la stanza, sino ai suoi piedi. Anna si scosse e andò alla finestra: Filippo tardava, ma accadeva spesso. Lui era distratto, disponibile e gentile: chissà chi lo aveva trattenuto, questa volta! Prese la coperta scozzese dallo sgabello accanto alla stufa e tornò al suo divano; aprì la coperta sulle ginocchia, la tirò sino alle spalle e l’aggiustò intorno al collo per restare calda. Poi lasciò che il tepore risalisse e tornò a chiudere gli occhi.
L’aveva amato Filippo: con la pienezza dei sensi e il legame tenace dell’intelligenza. Ma non aveva mai voluto sposarlo: il matrimonio era per donne insicure, non per lei. Sì, certo, un marito l’aveva avuto, a vent’anni, Pëtr Makarevič, che l’aveva convertita alla rivoluzione. Poi Anna aveva dovuto riparare in Svizzera: aveva incontrato Costa e dimenticato Makarevič. Amori giovanili! A trent’anni, Turati: e da allora erano passati quattro decenni di scontri, ripiegamenti, testa a testa, musi lunghi e rapide pacificazioni.
Un uomo lo si può amare con assoluto trasporto: ma non dovrai mai essere cosa sua. Anna si aggiustò meglio la coperta e ridacchiò fra sé e sé. Filippo era un capo, per talento e sapere: ma era lei a dominare. Si ricordava quando la definirono “la miglior testa pensante del socialismo italiano”: Filippo aveva sorriso e allargato le mani… ma era rimasto in silenzio. Difficile per lui ammettere la superiorità di una donna, anche se era la sua compagna.
Anna vedeva lontano: più lontano di tutti quei socialisti che affollavano il Parlamento, le assemblee, le piazze. Il socialismo era la difesa dei più deboli, di tutti; a cominciare dalle donne: le più sfruttate, usate, maltrattate. Ma ai compagni parevano interessare i maschi della classe operaia e contadina: le donne erano secondarie. E sostenevano, con stolida arroganza, che le donne erano nate per servire gli uomini, che non avevano pari intelligenza, che non sarebbero mai state in grado di decidere in modo autonomo. E su queste convinzioni si ostinavano a negare loro il voto: erano in pochi a seguire August Bebel e le sue tesi sulla parità femminile.
…
Anna si ricordava bene di un pomeriggio di sole, nel nuovo appartamento di Via Portici, 23. Le vetrate si spalancavano sulle guglie del Duomo e, sulla destra, i fiaccherai, allineati, sonnecchiavano in attesa dei clienti. Era appena uscita la replica di Filippo su “Critica sociale” al suo articolo sul diritto di voto delle donne: un cumulo di sciocchezze! … la questione era secondaria; le donne potevano aspettare; il voto avrebbe favorito la Chiesa, perché – si sa – le donne sonno facilmente influenzabili e i preti le avrebbero imbonite. E poi, aveva scritto Filippo, c’era il rischio che “la pigra coscienza politica e di classe delle masse proletarie femminili” rafforzasse le forze conservatrici.
Agitando la rivista, si era girata furibonda verso di lui: “Perché tanto savio e prudente? Il voto è la difesa del lavoro, e il lavoro non ha sesso. Filippo, quando una cosa è giusta… è giusta! Perché ti fai indietro? Ah! già: sono gli uomini ad avere il potere e tu hai paura di affrontarli? Sì, ce l’hanno, il potere: ma non è detto che abbiano ragione! Io non capisco: tu sei un uomo buono, sei giusto, sei intelligente… eppure fai così fatica a capire!”
Filippo, imbarazzato, si era avvicinato: “Arriverà il momento anche per voi! State tranquille, avete molte cose di cui occuparvi: la casa, i figli, i vostri uomini… e, sì, anche la politica… E’ giusto che ci stiate accanto: ma non è ancora il momento!”
“Filippo! Noi non dobbiamo accudirvi: noi dobbiamo starvi accanto, ma con pari diritti e pari doveri! Pazientare? E quando sarà il tempo? Lo deciderete voi deputati socialisti che avete paura della vostra ombra? Sono passati trent’anni – dico tren-ta an-ni – da quando Anna Maria Mozzoni ha presentato la petizione per il voto e tu mi dici di pazientare?”
“Anna, non ragioni…”
“Io non ragiono? Siete patetici… ti ricordi cosa ha scritto Ersilia (Majno), facendo sorridere i salotti milanesi e imbufalire i tuoi compari?
Tutte queste ragioni messe innanzi per negare il diritto di voto alla donna, farebbero supporre a chi non conoscesse lo stato di fatto che il diritto di voto concesso all’uomo soltanto sia stato esercitato in modo così perfetto, con così grande coscienza, giustizia, sentimento di responsabilità, e con esito così straordinariamente buono per la società, da esigere che tale felicissima situazione non venga compromessa dando il voto alle donne ignoranti, suggestionabili, senza carattere ed energia, capaci nientemeno che di lasciarsi influenzare dai fratelli, dall’amante, dal marito, dal prete e di votare per la reazione.
Il suo sarcasmo vi ha fatto a pezzi, e voi li avete raccolti senza una parola.”
Filippo era rimasto in silenzio, guardandola con intensità
“Sai, mi sta tornando in mente la prima volta che ti ho visto…. Avevi lo stesso sguardo di sfida, di quella che non abbassa mai gli occhi. Tu non alzi la voce… tu fissi l’altro, come volessi entrargli nell’anima!”
“Oh! Non basta…” Col respiro ancora affannato, Anna si era avvicinata a lui, gli aveva appoggiato le mani sul petto e gli aveva sussurrato: “Ma vinceremo noi!”
…
Filippo entrò in punta di piedi e si chinò su di lei per un piccolo saluto. Anna aprì gli occhi con un piccolo gemito.
“Sei arrivato!”
“Perdonami, ma Mussolini non mi lascia respiro. Mi ha reso fuorilegge e continua a mandarmi minacce. Non fosse perché stai così male, ti avrei già portata via, a Parigi…” e intonò giocando ‘Parigi, o cara noi rivedremo, / la vita uniti trascorreremo… / la tua salute rifiorirà’!”
Che idiota era stato a non capire quanto giuste fossero le battaglie di lei! Adesso era tutto chiaro: anche l’intelligenza politica di quella russa cosmopolita. Andava controcorrente e bacchettava tutti: i presidenti, i vice-presidenti, i direttori, gli onorevoli. Lei volava alto e dall’alto vedeva cose che sfuggivano ai più.
Anna scostò la coperta e gli prese la mano: “Adesso sono anche Traviata!”.
“Amo le Traviate! Senti non ti ho ancora chiesto perdono…”
“Per cosa?”
“Per essere stato a volte sordo e cieco. Come quella volta che avevi bisogno di me, a Salsomaggiore, 25 anni fa.”
“Non ricordo bene… era autunno, forse…”
“Sì, il 22 ottobre del 1900, per l’esattezza.”
Infilò la mano nella tasca interna della giacca, tirò fuori un foglio stropicciato e ingiallito e iniziò a leggere:
Le mie malinconie ricorrenti non sono dunque ne’ ipocondrie, ne’ isterismi, ne’ «cattiveria», forse sono semplicemente un ardente desiderio d’averti un po’ più per me, ciò che accade ben di rado. Mi vergogno a dirti queste cose, perché vedo già il tuo sorriso canzonatorio, leggo nella tua mente certe frasi in milanese che gettano il ridicolo su tutto; ma, cosa vuoi, non ho mai saputo, neppur ora alla mia tenera età, che cosa sia saggezza. Non so tacere, sorridere, quando ho la gola stretta dal pianto, parere serena, quando sono tormentata da sentimenti contraddittorii ed angosciosi: e ci vorrebbe tanto poco per rendermi felice. Il guaio è che v’ha un punto oscuro nella diversità del nostro sentire. Io so che tu mi vuoi bene, non ne dubito, ma non basta di voler bene, bisogna saper anche voler bene. […] E bada che te lo dico senza acrimonia, senza rimprovero, senza rabbia. Ti giuro che forse mai nessuno ti abbia voluto bene quanto te ne voglio io, e forse è questa la mia disgrazia.
“Grazie! Adesso ricordo… la scrissi piangendo: e sai che piango di rado. Sei stato la mia vita, brutto orso… e ti ho amato: sempre!”
Gli prese la barba e la tirò piano.
Filippo la guardò immalinconito. Non sei ancora morta e sei già un mito: la testa più lucida, libera e seduttiva che l’Italia, forse l’Europa, abbia conosciuto. Piccolo uccellino biondo, mi lascerai solo, qui a Milano. Non so se, dopo di te, riuscirò ancora a vivere in questa casa, a parlare ai compagni, a tenermi lontano da quel barbaro di Predappio. Ora riesco solo a ricordare quanto ci siamo amati….